esco da uno stanzino fresco, spoglio di orpelli come solo un edificio pubblico può esserlo (quando dietro alle scrivanie non sono dissimulati calendari pirelli, busti di dubbio gusto o modellini crocefissi). dovrei averci lasciato parole macigni che pesano sul cuore, ma sento che continuo a portarmele addosso. fuoriuscite con l’abituale difficoltà da corde vocali tese come artigli, scaturiscono in ulteriore gravame da gestire. come se sentissi gli effetti di una sofrologia dell’opposto che poco a poco mi invitasse a irrigidire i muscoli uno ad uno, sento le fibre appesantirsi, finché anche il respiro strappi l’aria con scatti dolorosi. bloccata da una tensione che palpo in ogni movimento e mi toglie il fiato. riesco a picchiettare meccanicamente i tasti solo perché non c’è bisogno di grazia e leggerezza per interfacciarsi con una macchina fredda. mi rinchiudo di fronte ad uno schermo, il plumbeo grigiore non solo metaforico di un cielo d’autunno scroscia sulla mia testa. gelo dentro, mi scuoto di spasmi che diventano singhiozzi acerbi. sospiro senza speranza. mi chiedo se non serva ascoltare una ricetta bianca e ingurgitare un’amara caramella azzurra. ma è troppo lontana, anche qualche metro mi sembra irraggiungibile. mi acciglio, per non bagnare le ciglia, in una salita di alberi sempre più morenti.
sono foglia a terra umida bagnata da gocce di un pianto che scende da lontano. mi pesano e mi accartoccio come lacrime dei rami d’autunno. raso terra, nella ghiaia dell’asfalto che scortica la membrana secca di quelli che erano stati germogli teneri.
dovrei raddrizzarla questa foto sghemba, ma lascio l’obliquità scomodante e le vette dei pini mozzati, metafora troppo parlante di un percorso che non ha nulla di lineare.