immagine moralista e religiosa a mille miglia dal mio universo, dove anche il saluto prosternato del karate appare troppo mistico.
eppure, potente metafora eloquente.
non credo allo spirito e all’anima separati da un corpo malvagio e perverso. siamo tutt’uno: impulsi elettrici nelle sinapsi come nei battiti cardiaci. non credo al diavolo, risvolto allettante e tentatore di un dio troppo stanco che, insieme a De André, si finisce sempre per nominare invano. non credo nel vendere, atto di fede capitalista che insignisce gerarchie.
eppure, sudo freddo al caldo , mi annaffio di fazzoletti e corse sulla tazza, spossata, mal di schiena che mi irrora fino alle spalle. e, ancora, non ho visto niente.
l’ho già venduta l’anima al diavolo. senza poter retrocedere, mi dico che forse vale la pena fermarsi. non sono forse più in tempo, ma certo non sarà meglio, dopo.
mi intossico con un piacevole veleno. ma l’amarezza della bile e le stelle del dolore mi ricordano che forse avevo torto a scagliarmi contro l’insensatezza moralista del ritornello d’infanzia “il bel gioco dura poco”.
eppure, che male c’è? quello che ci facciamo, che se non fossimo noi sarebbe un padrone, uno sbirro, un medico. prenderebbe altre forme e la sostanza non sarebbe la stessa. ma le stigmate nel corpo sarebbero ancora lì, ad avvertire che non si può vivere senza morire un giorno.