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Ancora toponimi

Ci sono giorni che assomigliano a incubi e notti dalle parvenze di sogni. I primi infestano le ore, facendole strascicare lente e faticose; i secondi scorrono talmente rapidi da restare appena incisi sulla retina. I colori si amalgamano, leggerezza e pienezza non hanno tempo di insidiarsi nello sguardo, le parole scorrono e mi avvolgono tra la melodia di un ghettoblaster o lo scoppiettio di un forno per le pizze, i baci non dati accarezzano i contorni sfocati della notte. Nei secondi. Mentre invece, la luce chiara di giorni appena estivi traspare al di là delle lacrime, gocciolando tra inviti non ricevuti, risi perduti, lontananza tagliente, cupezza di un orizzonte che non vuole scollarsi dal mio panorama. Stanze che rimbombano intanto che i miei neuroni si perdono nel vuoto e restano sospesi nell’incapacità di mettere un piede fuori o alzare una cornetta per ricevere un suono confortante. Essere un’isola richiede troppe forze per me. Ci vorrebbe un cemento che resista all’acqua di mare, come quando rubavamo la sabbia dalla spiaggia per fare il calcestruzzo. Ci vorrebbe un incessante via-vai di traghetti e barche a vela per assicurare un approvvigionamento costante di sentimenti accoglienti. Ci vorrebbe il vento giusto per prendere il largo ogniqualvolta ne spunta il desiderio. E invece mi blocco sul cucuzzolo di una montagna inesistente, tra le lamiere delle roulotte metà colorate e metà arrugginite, con un pinguino che mi permette di allineare byte in parole. Con una spalla a tratti dolorante nuoto chilometri di piastrelle nel timore costante di rivedermi mongolfiera riempita di zavorra. Un pallone d’aria incapace di volare, come quello imprigionato dalle corde sulla piazza del Balon. E mi insudicio di rancore: so che non si può tornare indietro, ma vorrei ben sapere come andare avanti, senza una stella nel motore, senza benzina per i neuroni, come lasciarsi andare al vento e osare qualcosina di più che ettolitri di lavanda e melissa. Perché il calore relativo di gesti ripetuti finisce per farmi soffocare, più di quanto non facciano i quaranta gradi che sciolgono l’asfalto, ma lasciano aperte mille possibilità dell’eventuale. Piango nel sapere che impantanata nella pece ci sono solo io, non che voglia vederci annaspare chi mi sta attorno, ma un braccio o una scaletta per uscirne fuori senza scottarmi con i vapori del catrame non sarebbero di troppo. E nel frattempo, in quelle sere infinite dai contorni onirici, tra la coibentazione al compensato di furgoni cassonati, mi inebrio al fumo spesso di un bitume che bolle, scuro e nauseante. E anche questo sarà un piacere da condividere effimeramente, attorno ai fornelli di una casa abbandonata, sulla brillantezza sferragliante, o con un cannello che soffia. Non sta in questo il problema, i vizi non sono (sempre) una gioia; invece la letizia sta nel varcare la porta del mondo insieme, senza restare a guardarmi attorno tra i lacrimogeni in una città sconosciuta senza un cappuccio, senza soluzione fisiologica e uno striscione che abbraccia e protegge dallo sfrecciare dei colpi di flashball. Senza crederci e senza speranze, riesco quasi sempre a trovare qualcuno con cui condividere il freddo urbano e il grigio di conglomerati troppo lontani dal mare. Invece, tra il verde dei pini e delle acacie, tra fiori fossili e boccioli, mi lascio marcire in una pozzanghera, afona, con lo scrosciare delle lacrime che l’alimenta, con chicchi di grandine che battono incessantemente sulle corde vocali per bloccare discorsi che forse cadrebbero nel vuoto di un’eco. Al di là della valle posso quasi intuire un fischio amico, ma bisogna arrivarci a varcare la conca. Perché qui è grande.

Una risposta su “Ancora toponimi”

Con lo scorrere degli anni e delle ore piccole che dilagano…non so più neanche bene a quali baci non dati facessi riferimento ?
Mi ricordo di una ragazza, capelli scuri, corti e lunghi e di altre labbra spesse, nella cui morbidezza ancora una volta ho finito, seppur nell’ennesima effimera alba che schiarisce la notte, per stringermi. E i baci ci sono stati. Che siano esattamente gli stessi voluti all’epoca non lo so manco più. Ma oltre alle sbarre, mi sono lasciata trascinare in questo gorgo di notti che inseguono i bar benefit.
E DeAndre mi risuona nelle orecchie “o finalmente sceglierai”. Per ora manco vado vivere con Alice, i fiori me li fumo bevendolo il whisky

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