Il profumo dolce dei petali stellati che appassiscono al sole punge come un veleno d’ape che si infiltra nei tessuti. Il pungiglione affilato dai contrasti che creo nella mia pelle è lo specchio fin troppo lucido di un’opposizione di acque che sa di classe. Renauld mi rincorre tra le sue vecchie note senza baci, ricordandomi che il posto al calduccio che mi sono costruita è distante dalle lacrime spremute e da tutto quello che ho avuto.
Non è questione di gratitudine, perché non si può essere riconoscenti per ciò che non si è scelto. C’è chi non ha scelta e scegliendo non ce l’ha avuta.
Non è questione di coraggio: si vive di pane e non mi è mai mancato (trovarlo in un cassonetto è pur sempre metterselo sotto i denti), ma si muore senza respiro e io affanno senz’aria ed orizzonte.
Avrei potuto anch’io camminare rotonda sulle assi di legno di una dimora montana, ma a dispetto del nome, non avrei potuto farlo serenamente. Ora avanzo su un lago ghiacciato, sperando che il freddo tenga sotto i piedi senza scivolare sulle rocce.
Equilibrista impacciata, funambola precaria sui fili delle ragnatele delle questioni accantonate che lascio marcire senza viverle.
Vorrei non doverle rispolverare con frequenza costante e levare gli acari che mi pullulano in testa, ma ritorno e fatico nel trovare il mio posto che non è in una poltrona di avanzi tessuti nei legami genealogici di un albero infestante.
Sono rovo: qualche germoglio che addolcisce la gola e salva dalla carestia, more che dissetano in una salita troppo lunga e sono spine che si arrampicano ostinate.
Potrei essere rosa canina, ma senza rami, i miei tentacoli non abbaiano.