Tra il mare di parole di ore vendute e le liste senza virgola dei primi anni 2000, realizzo che non c’è bisogno di andare in Cina o sulla luna per raccontare una storia. è una vita anche quella dei baci in un cinema il pomeriggio. ma, visto che nella mia, dietro al tendone spesso e impolverato della scura sala di provincia non ci sono mai stata e che non mangiavo smarties né fumavo MS morbide a quindici anni, ho dovuto metterci qualcos’altro che non si limitasse a rimpiazzare la saliva adolescente. e ci è finito dentro un po’ cosa ho trovato e anche quello che (non) mi sono cercata. mi vedo accanto al telefono pedalare lungo i campi dicendomi che è l’estate dei miei sedici anni. e adesso, manco ci penso più che è estate, se non per le bolle al sole, il vento caldo e l’acqua del mare. Non ho finito di pedalare, colline di erbe secche, un ponte in costruzione, la polvere e i sorrisi degli operai, un grande tag su una casa diroccata in lontananza. e sento la stessa pressione senza guardare alle stagioni, mi è pure capitato due volte lo stesso giorno di febbraio attorcigliare lingue da far battere il cuore. timida impacciata lo sono stata e me lo sento ancora addosso, davanti ad un film schermato dal lattice scuro. e il tutto finisce senza inizio, perché non ho bisogno di pensare per rincorrere l’ambulanza, scegliendo senza la mia salutare tipica esitazione di condividere fortimel e umidità grigia. accompagnare non è vivere insieme, pretesto doloroso per mettere tutto in un angolo, senza pensare che non avrei bisogno di aspettare i risultati dei raggi che non perforano le membrane. il sole all’arrivo che mi inganna, quasi avesi preso un aereo atterrato in un paese tropicale, gli sguardi famigliari di amici a cui neppure avevo più pensato non sono destinati a durare. né le dolci coperte e la finestra aperta sui grilli. L’aura chiara di un alone attorno alla zanzariera me l’aveva fatto pensare. Senza presentimenti, timori o paure, come ogni volta che vedevo scodinzolare, prima di partire, delle zampe che ho visto smettere di muoversi. mi resta da recuperare più di un mese di tempo per me, anche se quello prima l’ho fatto scorrere così velocemente da volerlo fermare. rincorrere l’ambulanza, correre dietro al pianto scosso d’angoscia dell’eco di una cornetta. non mi fa piacere, me lo accettano come ruolo dovuto. non me lo chiedo neanche, lascio le chiavi in mani sconosciute e tento di addormentarmi sui sedili in autostrada. un treno che, pur andando all’incontrario, non è completamente quello dei miei desideri. nessun rimpianto a vedere le lacrime sulle guance arrossate, immersa in un’altra dimensione che non è il mio reale. un corsetto di buone maniere che so allacciare alla perfezione fino a farmi mancare il fiato con il sorriso sulle labbra. artificialità convenzionale famigliare, un altro universo con i suoi pianeti e la sua gravità altra, ma mi ricorda differenze e attriti da quello a cui non so né sfuggire né negare né abbracciare. a quello a cui vanno i miei sentimenti contrastati per l’avermi formato a quello che sono oggi. sul mio letto, in un furgone, sotto le stelle tra le vigne accanto a un lago.
pensieri sgorgati dal vento dopo la lettura di Aldo Nove, Amore mio infinito, un mese di giugno difficile e ricordi sparpagliati.