non posso accantonarle, le angosce. strisciano tra il vapore dell’acqua spessa nella foresta e fra i raggi che bucano la finestra dopo l’acquazzone. si inerpicano nella voce calma che mi urla un futuro a cui vorrei sfuggire. nella pozza bitumata e bollente, tremo di brividi. tra l’eco delle candele, affogo in un’apnea che vorrei mi calmasse i sensi. aggrappata ai pioli arrugginiti di una scala a picco, l’aria si solidifica nella gola. lo zolfo e l’arsenico non mi ossidano pensieri e neuroni scuoiati vivi nel vedere come unico appiglio i segni dell’armatura del cemento. ha il merito di essere detto, il timore che alla fine faceva meno male senza certezza. a prova che forse non mi sbaglio così frequentemente come credo, ricevo indietro come pallottole ciò che avevo invano ingoiato nel groppo in gola di un sole pallido vicino alla pensilina di sabbia e roulotte.
mi faccio perforare i timpani dalla falsità delle note non son riuscito a cambiarti non mi hai cambiato lo sai , delusa da quella che credevo poetica realtà. siamo cambiati, eccome. sono riusciti a cambiarci ci son riusciti lo sai. io sono partita su una strada sterrata allo scoppiettare ritmico di bielle e pistoni, tra il sobbollire scuro di sostanze e tele da tessere. tu ti sei impolverato tra i libri, lustrandoti una patina di buon senso rivoluzionario. cosa avrò mai potuto credere, mezza sognante tra le dune e la polvere dei tuoi racconti? che gli avrei sentiti anch’io i sobbalzi dell’anima del non doversi piegare a nessun dio ne’ briglia? e con nelle orecchie il pianto disperato di un neonato che si fa paonazzo nel sopravvivere, mi vieni pure a parlare che hai accantonato le tue riserve con sicurezza, e accarezzi l’idea di un piccolo che sgambetta per riempire i buchi lasciati dai piercing. ma io non ne ho che siano privi d’acciaio, da lasciarmi infiltrare dall’irresponsabilità del riprodurre i miei e altrui difetti.
ho paura nel farmi schiaffare di fronte a uno specchio e chiedermi: cosa farei se non ci fossi tu? tra che muri coltiverei le mie paure? su che mare mi lascerei dondolare fino ad affondare? ci sarebbe vento a spazzare le nuvole? mi acceca la mia risposta nella quale l’ipotetico non si sovrappone per niente allo scorrere delle ore che sto vivendo.
lo stridere del gallo nelle albe insonni mi risveglia dal torpore dei mesi in cui si è giocato il nostro allontanamento.
forse mi abbaglio con la luce artificiale come se fosse uno spiraglio per uscire al sole, ma non potrò mai sorridere se non mi incammino verso dove credo poter volare.
sento un freddo siderale che occupa lo spazio sempre più immenso tra i nostri occhi puntati altrove. eppure voglio continuare a crederci, obbligandomi a proseguire sulla mia strada mal acciottolata, con la segreta speranza, ingenua e inutile, che un giorno possa ricongiungersi al tuo incrocio.
ps. il titolo e i versi in corsivo sono, come si può bene immaginare di De André, Francesco e Bentivoglio,Giuseppe, Verranno a chiederti del nostro amore, in “Storia di un impiegato”, Ricordi, Roma 1973
la foto è di http://vapeur.deviantart.com/art/little-moth-292303619