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ma quante braccia ti hanno stretta per diventare quel che sei?

lunedì 1 ottobre 2007

per sapere che fine ho fatto:

http://mad-emoiselle.blogspot.com

martedì 24 luglio 2007

ma quante braccia ti hanno stretta per diventare quel che sei?

perdo il senso del tempo tra sacchi a pelo, prati, spiagge, lenzuola altrui, treni, occupazioni, tende e cemento. si dilata e si restinge come un orologio molle di dalì, modellato dai kilometri, dalle situazioni, dai contatti e dalle sostanze, dal non dover passare sotto il giogo degli obblighi e delle costrizioni.
ed una memoria ingarbugliata che mischia i momenti, gli odori, i suoni, gli occhi, i visi, le facce, i posti come colori complementari, un trip psichedelico che confonde date e persone, che asporta le etichette sopra ciò che ho fatto (ma più probabilmente non le ho mai appiccicate!).
non è una novità che due settimane non rendano l’idea di tutto ciò che ora potrei scrivere a questa tastiera abbandonata, forse tralasciando ciò che non ho nemmeno fatto in tempo a fissare.
due settimane fa non riuscivo nemmeno a rendermi conto che avrei lasciato il lavoro, avrei voluto spendere qualche attimo a scrivere due righe, ma l’attimo è fuggito e ciò che mi sembrava così palpabile recandomi per l’ultima volta sul tavolino di formica ora mi sembra più distante della capitale europea più lontana. adesso i raggi filtrano tra i pini e mi sembra strano di essere qui ed avere quasi la certezza dove dormirò sta notte, una pelle profumata e pochi kilometri da volti conosciuti. perchè un giovedì nel cortile al caldo tra l’ombra delle gaggie selvagge, a caricare tavolini, amplificatori, sacchi di farina, piatti, impianto nei furgoni, ad adattare un’auto vecchia a ripostiglio, avanti indietro per una città bollente, con l’asfalto che si scioglie insieme alla frutta recuperata al mercato. un discount per l’acqua, un bar di quartiere per un tramezzino ed un gelato e trovarsi, en attendant godot sul cemento di un marciapiede di una zona industriale. l’adrenalina nel sangue per una nuova occupazione in presa diretta e trovarsi un’auto scintillante che sfrena di traverso e come un film fa uscire due individui che allungano velocemente un distintivo dicendo “polizia e favorite i documenti”. mi rendo conto che un elenco in stile lista della spesa è sterile ed inutile, ma è per me che voglio abbozzare uno schizzo. è perchè non riesco a distinguere con chiarezza ciò che ho vissuto ed ogni giorno che passa si allontana e si amalgama negli altri barattoli di spezie e colori.
e un cancello aperto su un enorme capannone invaso dal bambù e dal verde che mangia cemento e ferro di una vecchia fabbrica. si inizia per quella che vuole essere un’esperienza di autogestione ed autoproduzione, solo quattro giorni per gettare ponti e barattare conoscenze.
se mi perdessi a scrivere di ciò che mi ha spinto a varcare il cancello, a descrivere le ragioni per cui credo in ciò che ho fatto, probabilmente cadrei in un testo argomentativo che non ho voglia di scrivere. perciò se penso alla polvere ed ai vetri rotti, al cavo spesso ed alla presa bianca e blu, all’enormità degli spazi graffittati, al rimbombo tra la ruggine, agli sbirri in blu e rosso che con un piede di porco in mano forzano il lucchetto, alla voce bonacciona di chi richiede i documenti, alla volante, all’adrenalina e l’incertezza tra il resistere e lo scappare, ed il rimanere, non sapendo dove mettere i piedi, è perchè quelle sono le sensazioni che mi varcavano mentre guardavo al di la della cancellata le divise. nel caldo agitato di un pomeriggio di periferia, con la gravità di norme penali che pesano sulla testa, non sapendo come muoversi e finire incolonnati ad attreversare la città nel traffico. al buio in un cortile a cercare di capire e decidersi come muoversi, come la mente tagliata in due. e trovarsi in una piazza sentendosi chiamare per nome dalla digos e non voltarmi camminando per la mia strada lasciando gli sbirri rosolare nella loro merda. pentoloni di pasta serviti in piazza alle quattro di mattina, quattro e mezza forse, con gli immigrati che escono per lavorare e non capisco che cazzo ci facciamo con tavoli e sedie stanchi su un piazzale. le mazzate della porta coperte da musica che non c’è, e poi a mattino, dormire nel prato di un cortile, con le zanzare
[…ça va continuer…]

e come al solito perdo la voglia di esternare la mia vena realista, le descrizioni mi sembrano ovvie e allo stesso tempo troppo distanti per sembrarmi interessanti.
anche sfogare la mia voglia con un vicino di tenda strano, con il quale finisco inevitabilemente per scambiarmi sguardi che vanno a finire in una fine nottata a ingarbugliarci in tenda. anche questo mi sembra troppo distante, eppure un po’ di vino bianco attorno al fuoco e qualche canna ad amsterdam non devono essere una cortina troppo spessa. ed era l’altro ieri, a scoprire piercing anche dove non li avrei immaginati, a rifiutare amplessi sotto la doccia (cazzo, senza preservativo!), a gingillarmi con piercing su labbra e guancia, abbracciati sotto la pioggia e sentirmi dire “ti prego facciamolo, ti ho resistito tre volte e non potrei un’altra”. e mio fratellino poco prima, ad interrompere, svegliandosi, due corpi che si lanciano sguardi falsamente innocenti e così ben mirati sin dall’inizio da parte di entrambi. perchè so fin troppo bene che di leggere un’etichetta di un sacco a pelo non ne fotteva nulla a nessuno dei due e forse non ci interessava nemmeno troppo come ci chiamavamo, dal momento che una rosa è sempre una rosa, comunque tu la voglia chiamare (ma da che trip esce fuori Shakespeare?). perchè a dispetto di qualsiasi dispaccio proibizionista, a me il thc fa venire voglia, tanta voglia. e l’erba ed il fumo ad amsterdam si comprano nei bar, come racconta estasiato il mio compagno di viaggio-fratellino-diciassettenne ai suoi amici che guardano con invidia la bustina di cimette. e mangiare hashish in una torta mi può portare davvero ad immaginare musica orientale e cammelli sersiani che vagano per un cesso di un campeggio, un albero che si trasforma in un elefante da ageofempire, il terreno pratoso che si inclina all’indietro, verso un cielo che prende le striature del mare. e i colori si mescolano, brillando insieme e distinti, accanto a suoni e rumori che sembrano aleggiare nell’aria. già, una bonghetta di vetro regalatami e mai usata (ma rotta e riacquistata) fa salire sensazioni ben diverse dalle allucinazioni dei villi intestinali, eppure quella voglia, mischiata agli ormoni irrefrenabili di una ventina d’anni, mi portano a non chiedermi perchè un italiano si ostini a parlare inglese, ma a voler solo sentire il suo corpo sul mio. e se ieri non ho dormito, infreddolita dal condizionatore di un treno notturno da Parigi, l’altroieri mi rigiravo stanca in un cortile erboso di Bruxelles, il giorno ancora prima, non dormivo vedendo l’arancione del nylon della tenda schiarirsi sempre più (ad Amsterdam).

martedì 3 luglio 2007

è luglio da tre giorni…

sgranare argilla sotto le gaggie di un edificio occupato, una pasta con troppo poco sugo e l’odore di saldatura, fagiolini e cetrioli nell’orto. le mani si incalliscono, ma mille idee si accalcano. sazio il mio desiderio adolescenziale di “fare qualcosa” e mi sembra di aver trovato la strada giusta.

domenica 1 luglio 2007

sehnsucht?

un’amalgama di colori e sensazioni si accalca sulle mie dita in attesa di essere trasformata in parole e frasi. il sabato mattina il telefono continua a squillare ed e sempre la calda voce francese al di la del filo. ma sono troppo timorosa, questa volta, per trasgredire alle voci sagge di tutti che, come sempre, mi consigliano di restare. insistenza che mi lascia un po’ basita e gioco il peggio gioco dicendo “ti farò sapere” (del resto, dr. hannibal c’est le plus mechant des animals).
un pomeriggio caldo tra la brezza degli alberi di periferia, un’atmosfera che varrebbe la pena rincorrere, tra offerte di birra e un orto di caprette e piantine a sette punte, un’auto che non parte, tangenziale che sembra autostrada d’agosto, supermercati condizionati. e la sera, dopo tanto tempo, in un parco in cui ho lasciato un frammento di cuore, scarico cassette di verdura dall’orto e mi dimentico completamente di lanciare un’occhiata un po’ più in la. e un mosaico in più non è una differenza abbastanza grande per segnare il tempo trascorso. e seduti a chiacchierare il tempo va (anche se un’assemblea strana e preferisco fornelli e fantasia). una strada al buio lungo la ferrovia, facce scure e semafori lampeggianti. arancio dei lampioni e grigio dell’asfalto si fondono ai margini del parabrezza. e con il sole in faccia di una mattinata afosa, due ragazze in un ingrosso di materiali edili sembrano extraterrestri, maschilismo cavalcante che vede tra i mattoni solo chi ha qualcosa che penzola tra le gambe. e “signorina mi raccomando, in senso di marcia!” perchè anche le auto le sanno usare solo loro. e poi un abbozzo di vita, alle undici caffè della sveglia (e, perchè, perchè non ci sono anche io?) in una strada proibita alle auto. poi l’angoscia degli ospedali, forse più ricordata, ma toccabile tra le strade di un isolato pieno di croci rosse e mura gialline, persone che traballano insieme alle loro lastre nelle cartelline gialle, stampelle, fasce e bendature anche tra chi cammina per le vie. espressioni tristi rassegnate di chi attende il bus con gli esiti in mano e, ancor più di chi sbuca su una barella dall’ascensore tra i camici bianchi che puzzano d’antibiotico. ed un bimbo scuro sulla soglia a scambiare monetine con premonizioni di buona fortuna per la guarigione. voglio andarmene togliendomi al più presto dall’inesorabilità biologica. ed i miei vecchietti si limitano ad ingoiare triatec e xanax (e se c’è qualcuno che si fa di morfina non sono nemmeno io a scrivere la ricetta).
un aperitivo che inizia alle nove, posticipato per ravioli e pollo da spolpare (odore del sangue di volatile che mi nausea) pochi sugli scalini colorati e caldi, musica e qualche canna. e veloce verso una festa tzigana che è già finita e scoprire che c’è chi parte e non dovrebbe. ritmo di un bongo in riva al fiume, la terra che sembra sabbia, insalate di pasta, couscous e grano, gente che balla, e qualche sagoma inaspettata. ho sete, ma non c’è altro da bere che il succo scuro di un pintone. so porre le basi per la mia infelicità e mi obbligo ad andarmene, so che mi aspetta un menu da preparare e servire. e su e giù per le scale con vassoi e pentole fino a che le gambe fanno male. incredibilmente per nulla a piegare in due i triangolini di pasta fresca, dosare il curcuma con le noci frantumate. ed è domenica, anche se il cielo si è scurito la viscosità del tempo torna a fare capolino.

martedì 26 giugno 2007

yabadabadabadoo!

inebriata dall’azzurro del cielo e dai fiori di magnoglia, mi rotolo nel prato con i fichi sulla schiena. niente di meglio dell’aria calda e nitida per festeggiare. more staccate al sole e zucchini profumati al basilico. il grano scuro e l’ombra di un albero tra l’avena. e per quest’anno ho finito! ho finito! penso ad archiviare i libri in soffitta, tiro fuori mille cose da fare e voglia di gettarmi
ho gli occhi di quella stanchezza felice, fatta d’estate e non più voglia di sentirmi chiamare “signorina”…
mi preparo a saldare ed a modellare l’argilla, a replicare fiori di zucchina ripieni e a raccogliere rossi pomodori. ho un vestito da cucire, delle pareti da inventare, un presidio per i compagni, un’assemblea, una faccia (forse) da rivedere, una piscina in cui sguazzare, freni da mettere a posto, altri buchi alle orecchio, bermi l’aria di una notte blu d’estate e luna. e tanto altro ed in fondo mi accontento di essere felice.

domenica 24 giugno 2007

e oggi me ne sto qua

ho riscoperto il gusto del tatto: mangio con le mani e appoggio i piedi sulla terra e le piastrelle
sogno labirintico e sconnesso nella luce del mattino
la calma di una serata fin troppo tranquilla, il calore del cemento restato al sole, l’aria a smuovere placida qualche foglia sotto i lampioni languidi, poche auto ed posto piuttosto vuoto.
avrei troppe domande da farmi, ma mi gratto via le incrostazioni da punti interrogativi.
mi ricordo di un’insalatiera unta che dovrei lavare e togliere dalla mia auto, a metà della notte in una viuzza di un quartiere “a rischio”, con le portiere spalancate a scaricare cassette di libri e cibo.

a nanna

non mi ricordavo che l’alba fosse alle cinque
mi slaccio il reggiseno che il cielo è già blu
ed anche gli schiamazzi in cucina sembrano diminuire (ma mi preoccupa: le apparenze ingannano)
sarà una serata strana in cui devo andare a letto presto per poter studiare
sarà un clima che non ho respirato perchè c’era qualcosa di bizzarre nell’aria
sarà che c’era un’adrenalina in circolo prima di partire che mi avreva fatto presagire, ma
cahipirinha (o caipiroska?), fragole, meloni ed anguria su tavoli lerci
e sento raschiarmi in gola, lo so che non è il fumo dall’olanda, sarà questo da questi paesi troppo bassi.
l’altranno mi faceva male il collo per le canotte, aria gelida e sento fischare sopra i tetti un corvo in gabbia con cui un ragazzino ubriaco si diverte a chiacchierare

venerdì 22 giugno 2007

rum e panna

occhi spalancati: mi è bastata una goccia di armagnac nel thé verde con mia sorella, qualche endorfina randoom sparsa, caldo e aria d’estate, una granita alla menta ed una casa senza padroni per ritrovarmi a sorridere
in bicicletta in un’afa quasi tropicale, un medico giovane ed il suo bimbo carino, un esame che forse è il penultimo, un autista della gittittì che non maledirei, un’esercitatrice d’informatica umana, una bambina zingara che mi predice in cambio di venti centesimi un ragazzo dagli occhi azzurri da cui avere dei figli (ma il tipo attuale ha gli occhi scuri e poi non mi piace fare l’elemosina), i fiori di zucchina nell’orto da imbottire, l’idea pazza di una festa, domani finalmente a torino, cicche di sigarette e olive, l’odore del fumo in cucina che davvero sembra un’occupazione, un melone succoso ed arancione nel caldo del pranzo, un vestito rosa a quadretti da bambina
sono talmente contenta che mi dimentico di studiare, fremo di desiderio e non vedo l’ora di tornare a gioire

martedì 19 giugno 2007

hei oh let’s go!

mi sento un po’ un asintoto (che forse io sia una tangente?)
mi sento gli occhi aperti come in Arancia Meccanica -due puntelli tra le palpebre e la voglia di chiuderli- (ma mi manca il latte+)
le ore di studio sono perfette per recidere le doppie punte, ma ogni tanto capita di sforbiciare inutilmente verso un capello un po’ più in la (bastardo! e dire che mi sembrava di averti preso)
no signora, i vigili non sono qua…non so dove siano ora, ma so che qui non ci sono da quattro o cinque anni
sì, mi chiedo se ho da vergognarmi di una me stessa di un lustro fa…e un po’ mi viene da ridere pensando a Buckowski (no, no…l’alcol non c’entra e i cavalli neppure) tout se tient?
l’inerzia sarebbe finita, devo carburare per andare a vanti, ma mi sono scordata l’olio di cAlza e una nuvola copre il mio pannelo solare.
(ehi, oh, let’s go!)

domenica 17 giugno 2007

hai dato da mangiare ai ragni?

nell’impresa impossibile (ma cruise ce l’ha fatta) di finirla con bodhisattva, mahayana, dharma, transustizzazione -porco allah e porco dio, porci anche visnu e shiva- guardo i fiori di magnoglia sfiorirmi davanti agli occhi e sazio i ragni degli angoli con mosche e polvere. le zampe esili e lunghe non riescono a capire che mi sono trasformata in una fly-hunter a tempo perso preferendo all’acchiappamosche solo le zampe spappolate di una zanzara tra le mie dita. e pensare che quell’insetto -ma il ragno è un insetto?- fosse una fanciulla presuntuosa mi riesce davvero difficile anche se lo vedo indaffararsi con la polvere al pari di una massaia.
no, non sono sadica, mi prodigo a compiacere gli orrorifici aracnidi.

sabato 16 giugno 2007

bastioni di cartone

mangio scaglie di trotra,
sul tavolo, una borsa azzurra,
i fiori di lavanda e le rose gialle
(sì come l’invidia)
cielo chiaro attraverso un vetro
assassina di mosche e della mia voglia
seduta con un penna a rattrappire la mano
e ho deciso di continuare senza dar fuoco alla massa di cellulosa che mi attornia
perchè l’arsenico avrà anche il gusto dell’inchiostro, ma l’inchiostro non so che gusto abbia
gabbia

giovedì 14 giugno 2007

lamponi

le foglie di vite americana penzolano al sole
un gallo canta, i muratori dall’altro lato della strada martellano ed un’auto passa.
la finestra è aperta perchè, anche se le nuvole minacciose ricoprono un angolo di cielo, è pur sempre giugno. e mi sembra così strano rileggere ciò che pensavo a dicembre o gennaio, ma sono capace di andare avanti. sento fischiare tra gli intonacatori e ripenso a vale con l’auto ferma in mezzo ai campi di grano. lei l’ho trovato chi cercava e, anche se mi viene un po’ di tristezza a pensare a quando mi raccontava “niente baci se no diventa una cosa seria” (e io altro che lingua, anche se sapevo benissimo che non era ne sarebbe mai stata una storia seria), mi chiedo cosa stessi cercando io. E devo decidermi ad accantonare del tutto ciò che non è stato. ho qualche esame, ma anche tante speranze davanti e non vedo perchè dovrei arenarmi nell’appiccicoso zucchero filato dei primi mesi dell’anno. sento la radio che annuncia gli arresti ed anche se ho capito come funzionano queste merde, non riesco a non mischiare incazzatura e stupore. perchè la speranza che tutto sia meglio di ciò che è non mi ha abbandonata.

mercoledì 13 giugno 2007

abbracci e pietre

sorrido, anche se non ha smesso di piovere e il cielo è ancora plumbeo.
l’umidità invischia le notti e il sudore si attacca ai capelli ed alla schiena.
ma sono contenta. le luci arancioni di un quartiere di una città viva ed in continuo travaglio colorano i marciapiedi della una cena benefit davanti alla nuova occupazione. pollo e riso ai ceci, fichi e vino. musica e chiacchiere, abbracci per salutarsi e ridere. vivere su una scrivania non fa decisamente per me.
e arrivare davanti al portone colorato dell’ex caserma dei vigili temendo di aver sbagliato giorno, trovandolo ancora incatenato. e, davanti ad un’altra occupazione, per scoprire che ci sono i fasci poco più in la.
per tanti, “fasci” e “fascisti” sono due espressioni da relegare nel buio della storia, senza nulla da spartire con la vita di tutti i giorni. Altri le usano come comode categorie per riempirsi la bocca in prossimità di qualche evento nazionale scordandosi che gli antifascisti hanno lottato contro lo stato fascista, mentre per noi sono un’entità concreta, dipinta di rossobiancoeverde con celtiche nere. hanno facce brutte e capelli corti, caricature di se stessi con anfibi, pantaloni attillati e camicie nere, polo di marca e jeans firmati. certo, fossero solo questo sarebbero innocui, ma sono anche accoltellatori spalleggiati dallo stato, razzisti e xenofobi. e sono capaci di urlare, davanti ad un discount di un quartiere da sempre vivo per l’immigrazione, “pusher boia” ad ogni nigeriano che passa. e peccato che lo facciano dopo aver chiamato la polizia a difenderli, a coprire i loro striscioni con gli scudi e manganelli di uno stato che non ha altra scelta che schierarsi dalla loro parte. lo stato è gerarchia, autorità, coercizione, violenza “legittima”, repressione, lo stato è fascista anche senza che i celerini ce lo ricordino cantandoci “faccetta nera”. perchè magari la gente affacciata ai balconi che ci guardava (qualcuno impedendo ai fotografi della digos e dei giornali di salire per schedarci meglio)
l’ha anche pensato che eravamo folkloristici tutt’e due. da un lato del marciapiede noi, con i cani, vestiti neri, tatuaggi e piercing da farci urlare “acqua e sapone, con voi acqua e sapone” dall’altra loro, con le loro bandiere nefaste di un’ideologia merdosa, accompagnati da polizia e carabinieri antisommossa, pronta a mettersi in testa il loro casco da playmobil e prendere in mano il manganello. per chi non ne sa nulla (sì, perchè è facile chiudere gli occhi e cullare la propria coscienza nell’ignavia) possiamo perfino sembrare due facce della stessa medaglia, gli uni che ripetono sempre le stesse quattro frasi in un megafono affittato, gli altri che coprono “basta spaccio” con “morte al fascio” battendo su qualche cassonetto. eppure, l’illusione di stare al di sopra della barricata è solo un inconsistente palliativo per coscienze. è più facile continuare la propria vita nell’angolino in cui ci si è ritrovati, soprattutto quando questo è stato fin da subito dorato ed asciutto. un po’ meno, forse, lo è per chi deve ricorrere alla rassegnazione o a qualche ideologia religiosa che faccia pensare che abbassare la testa in questa vita farà bere fiumi di miele e vedere i signorenostrodio nell’aldilà (esistono molte varianti: calcio, splendidi centri commerciali, auto truccate, tivù, vacanze tuttocompreso, l’importante è non varcare i confini). sono parole che avranno il gusto della retorica, ma se mi ritrovo in piazza ad urlare ci sarà qualche motivo. e se tutto mi fa schifo non mi accontento di un programma alla tele per non marcire, non mi basta lo stipendio a fine mese per poter tollerare la vita di merda che tutti i giorni mi causa il vendere mio tempo prezioso a qualcun’altro, non mi è sufficiente un cocktail in una discoteca fighetta dentro un sistema economico del cazzo per essere felice, non me ne fotte nulla di tutto ciò che mi vogliono propinare. voglio qualcosa di più. e creare situazioni umane in cui non ci siano quegli ostacoli alla mia ed altri individualità. ma la mia libertà, e vaffanculo alla visione liberalista di un Franklin di merda e compagnia bella**, non finisce dove inizia quella altrui, ma non può esserci se non c’è anche quella degli altri. e non rimane null’altro che lottare contro tutto ciò che l’opprime, stato e fascisti in primis.

martedì 12 giugno 2007

mal di testa

je ne reussis pas à étudier, à fermer ma tete dans les pages immobiles d’un livre inutile. Il me suffirait de parler avec quelqun, de rire ensemble et de ne pas pourrir su un bureau en faux bois blanc. c’est inutile, je me sents seule. Je sais que je dois attendre la fine des examens et l’unique façon de sourvivre c’est remplir l’attente en étudiant le plus possible
Bien que mes dents se puisssent plonger dans le jaune d’une peche mure, je voudrais pleurer, des larmes amères, sans aucune raison. J’ai decouvri ce que je savais déjà, mais que je preferais oublier, que ce que je suis en trian de faire ne sert à rien. RIEN.
Je l’ai trouvé le post où je rigolais de ma copine au téléphone et je me demande comme j’avais fait pour trouver le bonheur. j’ai mal au ventre maintenaint. c’est tards. c’est la faute aux examens c’est la faute à moi. je ne peux pad résistir parmi des murs roses et blancs, sur un parquet taché, je ne peux pas vivre assise! je veux me bouger, chanter, parler hurler, toucher, embrasser, conduir, rire, fumer, cuisiner, voir, vivre, ne pas rester ici avec une vieille encyclopedie dechirée. seule. le téléphone muet, au maximum une voix qui me demande si tout va bien, si j’ai pas bu car c’est un cuop de tel plutot bizar. non, je ne bois pas seule, sans personne je me limité à avaler litres de thé, mais je suppose que personne n’a envore trouvé des effects psychotropiques. soeur qui rentre, en regardant le portable elle prefere une prière fausse et hypocrite à s’arreter parler avec moi. je n’a autre solution que lire Aristote sur l’esclavage des anciens, en me trasformant dans une esclave bete, qui decide de sa volonté de se faire emprisonner par rejoindre un objectif dont elle s’en fiche.

domenica 10 giugno 2007

tousjour dimanche

velato pulsare di un angolo di testa, abbastanza pungente da impedirmi di concentrarmi sulle fotocopie sbiadite di una dispensa universitaria, ma non sufficiente per allontanarmi dalla tastiera. rileggo sorridente i post di ottobre, di quando non riuscivo a capire chi aspettava per parlarmi e mi salutava per cinque volte. strano rivedere le considerazioni scritte quando ancora non sapevo come sarebbe andata, nemmeno lo immaginavo, tra le foglie gialle e rosse, che ci sarebbe stato un giorno in cui l’avrei aspettato io. e avrei atteso (inutilmente) che il “ci vediamo martedì” pronunciato nella notte di una macchina ancora calda si trasformasse in realtà. ma che importa? è passato anche quello. e sta sera è inutile che mi sobbarchi il senso di colpa dell’ozio e i chilometri sola sotto la pioggia per vedermelo di sfuggita parlare con altre. ma era già un po’ di settimane che andavo per gustarmi gli scambi d’idee e proposte, per respirare profonde boccate d’anarchia e film lasciando ben distante qualsiasi forma d’amore. e oggi non farebbe eccezione. gli acquazzoni mi portano fuoristrada ma è giugno, non ha senso tatuarsi l’epidermide con le sensazioni dei mesi freddi, anche se portavano con se’ più calore e piacere di quelle che ho voluto costruirmi sinora.

sabato 9 giugno 2007

balconi, nuvole e greci

finestra aperta sul balcone, l’aria incerta di un giugno strano s’infila all’interno
sonno per la stanchezza di non aver fatto nulla
un pomeriggio con un cielo grigio attraverso il vetro, sedia su cui mi rigiro come in un letto d’insonne.
neanche riesco più a pensare che potrei salire su un’auto e andare, o forse ho solo perso cosa voglio cercare.
una banconota da venti euro a marcire stropicciata sul davanzale del bagno, quasi bastasse accartocciarlo il denaro per non averne più bisogno. fame nervosa nell’inutilità di letture antiche, foto di un orto, verde dei piselli e delle ortiche.
vorrei non dover studiare ma me lo sono scelto, vorrei non dover lavorare e mi chiedo se avrò il coraggio di non sceglierlo. viscosità e fluidità delle ore si intrecciano, non permettendomi neanche più di capire perchè non posso pedalare su una bicicletta o immergermi nell’acqua clorata dell’azzurro di una piscina. mia sorella che si guarda nello specchio le occhiaie tristi del ballo di quinta e qualche ricordo sparso dell’ultimo ultimo giorno di scuola. solo la media dell’otto, ma è valsa la pena entrare dal preside con segni di sbronza e seguirmi le ultime due ore del liceo. dopo aver visto l’alba per le strade di una cittadina di provincia, strisciando i pantaloni nuovi sul caldo dell’asfalto, tra vodka e un fumo troppo provinciale per essere buono, rotolandosi sulle piastelle di graniglia immaginando stelle al posto del lampadario. varcare la soglia con un’ora e mezza di ritardo, con le papille invischiate da un dolciastro thesanbenedetto, sentir ridere per la mia innocenza davanti al prof nell’affermare che due compagni sono a letto insieme. ancora quella complicità che ora, a distanza di due anni, è irremidiabilemte fuggita, anche se sono contenta di essere cresciuta. non so cosa fare, ma sono felice quando mi accorgo di poter ancora scegliere.

venerdì 8 giugno 2007

envie de sexe?

il n’y a pas que les gars qui aiment faire sexe. ils le croient, peut etre, que le plaisir ne soit qu’un désir masculin. je me réveille le matin des fois avec dans la tete des reves avec des corps, des langues, des bittes. et je voudrais les entendre réellement entre mes jambes, sous ma langue, parmi mes lèvres. je voudrais l’entendre réellement la langue avec la mienne, la sienne à lecher les petits seins, à me faire rejoindre le plaisir. c’est long un mois sans gars, ce sont encore plus interminables deux. c’est embetant d’etre seule, tes doigts sont bien loins de t’etre suffisants, les objects ne sont pas assez chauds et vivants. ahhhhhhhhh j’ai envie d’hurler. je pensait que c’était le désir d’un mec en particulier, je me le rappelle encore sur moi. mais, c’est pas comme ça. je le voulais pour ce qu’il répresentait pour moi, pas exclusivement pour le sexe. pour cela, ça va quiconque qu’il me plait. car, d’une partie je suis douce et tendre comme les hommes imagines réellement les filles, de l’autre, je m’en fiche des sentiments, je suis cinique, je ne récherche que mon plaisir. et, en réalitée, je ne mélange meme pas souvent les deux choses. et je me demande s’il faudrait partir, je sais, que au dela des dangers que mes amies attachées à l’idée du sexe comme amour veulent me prédir, qu’il suffirait un train, deuxcents kilometres et je obterais un gars, ou mieux une bitte. mais maintenaint je dois étudier, je dois travailler, je dois squattér, je dois…oui, je voudrais le faire. et l’alcohol me defence de me rappeler à ce que c’était réellement passé sur une plage, dans une voiture et dans une tente (la meme, oui, je me la rappelle deux semaines plus tards, mais c’était un autre gars). je ne me le rappele pas, lui. ce n’était rien d’autre qu’abstinence forcée, et, peut etre, c’était pire que maintenant.

giovedì 7 giugno 2007

cui repetita iuvant?

ogni tanto mi capita: mi addormento tra il cuscino e le lenzuola sporche con qualche lacrima repressa tra le palpebre e l’iride, sconsolata senza (troppi) motivi.
mosche che mi ronzano attorno e mi ribomba lontana la voce roca di fiorella mannoia, retaggio di qualche sghembo ricordo d’infanzia. ho una nausea latente e la pelle d’oca, gli occhi pesanti e mi perdo guardando trasognata lo zucchero al fondo di una tazzina di caffè.
trovare la normalità anche dove non avrei mai pensato, mette in dubbio la mia convinzione sulla possibilità di non farmi triturare dal marcio sgargiante che ci circonda. o, ancora una volta, è solo invidia per ciò che non riesco ad ottenere. anche se, mai posso dire di esserci arrivata così vicino. alla basa gli stessi geni mescolati diversamente a distanza di qualche anno. ma neanche mi sembra più vero. e continuo ostinatamente a camminare verso una meta ignota. studio senza sapere davvero il perchè, mi chiedo l’utilità di ciò che mi rimane incollato ai nueroni e, se davvero, come dice una mia amica, c’è da incazzarsi perchè è tempo prezioso buttato. eppure, anche potendo tornare indietro non saprei cosa fare di diverso.
cazzo, mi sembro sempre una persona così per bene quando scrivo su sto blog. non so perchè mi perda in descrizioni cromatiche e sensazioni che sembrano di una bambola di porcellana.
in realtà non sono affatto così, in grado di incazzarmi e macinare rancore verso me stessa, con ferite all’aria che bruciano. e troppo spesso mi sembra di avere il disinfettante davanti agli occhi e non riuscire ad allungare il braccio che si incancrenisce. e preferire marcire.
perchè alla fine se fossi sincera con me stessa, potrei dirmi che il malessere mi arriva diretto da dentro, da quella mia incapacità ormai cronica di espormi per fare ciò che davvero vorrei. perchè va a finire che lo faccio lo stesso, ma nascondendomi e soffrendo per questo. senza contare che mi rode quella solitudine che da un lato mi colpisce nell’astinenza di almeno un mese da qualsiasi organo maschile (ma saprei ben risolvibile anche solo con una telefonata ed un treno!) e dall’altra quella solitudine un po’ più radicata che forse mi ha sempre accompagnata e mi ha sempre fatto male soprattutto nel timore della sua indeterminatezza.
e poi mi chiedo se sia davvero necessario che io mi progetti il futuro, se non sarebbe meglio incominciarmi e poi vedere, e senza nemmeno darmi una risposta, cerco nel the le soluzioni che nemmeno so se voglio trovare.
e poi accantono tutto, mi basta un cazzo, un po’ di colore, qualche amico, un po’ di musica, qualche uscita, un po’ di risate, un po’ di alcool, incazzatura anarchica, qualche canna, una notte calda, un’alba improvvisa, una coincidenza simpatica, una carezza, una gelosia immotivata, qualcosa da fare, viaggi in testa e occupazioni e nemmeno penso più alle mie contraddizioni. aspetto un altro momento di debolezza per vederle con relativa chiarezza li davanti, cercando le giustificazioni che mi permettono di continuare a conviverci. ma a chi giovano le ripetizioni? perchè mi sembra che se anche ciò che mi invento per legittimarmi vari e sfumi di volta in volta, il problema resti uguale ed, in fondo, vorrà dire che non ho voglia di risolverlo, che sto bene così. me le porto dietro da molti mesi, quasi da qualche anno ormai, sarebbe forse più strano non avercele accanto, poter vedere in faccia il cielo che non continuare a lamentarmi e crociolarmi nell’autocommiserazione. sì, mi sono fatta l’ultimo prezzo. ho cercato di dire le cose come stanno, perchè penso proprio che stiano così.

(di nuovo) sola

accanto a me il sedile vuoto, il fischio della guarnizione del tergicristallo che porta con se’ i suoi anni e una ventola al massimo perchè non si appanni il vetro. le strisce lunghe dei fari sull’asfalto viscido, la strada offuscata dal nero che brilla sotto la pioggia ed il verde che quasi si trasforma in giallo anche sotto il cielo grigio.
al telefono, sulla stessa sedia di sempre, con la cornetta che si porta sulla schiena gli anni, la situazione di cui ridevo qualche mese fa si ribalta, fredda e triste a mio discapito. e mi sento (di nuovo) sola.
me ne sono accorta poco dopo la chiamata, quando ho realizzato di non aver altro metro per misurare la mia vita che me stessa, di non poter neanche più azzardarmi a parlare al plurale (che non sia quello di un “noi” più ampio e caldo che, per fortuna, resiste ancora), di non pensare più con un sorriso a qualsiasi cosa che mi ricordasse un momento felice, a non avere più la certezza che qualcuno si sieda accanto a me. mi manca qualcuno tra le cui braccia gettarmi, macchie bianche sui vestiti da lavare, pensare “questo glielo devo proprio dire” e immaginare un discorso da trasformare in parole. contare affannosamente i giorni delle mestruazioni, rubare preservativi al supermercato e immaginarsi di poter partire su un treno in due verso l’ignoto. e, intanto, sento il freddo umido alla spalla, ossa solamente ventunenni che già reclamano un po’ più di caldo. libro aperto sulla scrivania a guardarmi ed io che scuoto la testa non sapendo nemmeno perchè ho iniziato a sottolinearlo e perchè continuerò a ripeterlo fino a farmi segnare due cifre su un libretto dorato. eppure, è incredibile come diventino famigliari certe voci, come c’è da dare per scontato sentirsi chiamare per nome e rivolgere una battuta. e tra l’afa umida appiccicosa e la pioggia che punge gelida, non riesco nemmeno a capire se fa caldo o freddo.

venerdì 1 giugno 2007

lucciole sotto la pioggia

mi avevano detto che le lucciole brillano nei prati delle notti di maggio per una polverina fosforescente posata sul loro paffuto corpo da insetto. eppure, anche volando sotto le gocce di pioggia, continuano a luccicare. sì, mi avevano detto molte cose diverse da quelle che sono. ma sono contenta di potermene accorgere in tempo, prima che, assuefatta, le dia per scontate. e c’è da chiedersi cosa servano le candeline su una torta di ventiquattr’anni, mentre preferirei essere all’umido di un gazebo tra punk e chissà cos’altro. gli occhi mi pesano, ma lo studio è troppo poco, come dice Stevenson è meglio il verde dei campi e l’asfalto delle città.

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