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ma quante braccia ti hanno stretta per diventare quel che sei?

martedì 24 luglio 2007

ma quante braccia ti hanno stretta per diventare quel che sei?

perdo il senso del tempo tra sacchi a pelo, prati, spiagge, lenzuola altrui, treni, occupazioni, tende e cemento. si dilata e si restinge come un orologio molle di dalì, modellato dai kilometri, dalle situazioni, dai contatti e dalle sostanze, dal non dover passare sotto il giogo degli obblighi e delle costrizioni.
ed una memoria ingarbugliata che mischia i momenti, gli odori, i suoni, gli occhi, i visi, le facce, i posti come colori complementari, un trip psichedelico che confonde date e persone, che asporta le etichette sopra ciò che ho fatto (ma più probabilmente non le ho mai appiccicate!).
non è una novità che due settimane non rendano l’idea di tutto ciò che ora potrei scrivere a questa tastiera abbandonata, forse tralasciando ciò che non ho nemmeno fatto in tempo a fissare.
due settimane fa non riuscivo nemmeno a rendermi conto che avrei lasciato il lavoro, avrei voluto spendere qualche attimo a scrivere due righe, ma l’attimo è fuggito e ciò che mi sembrava così palpabile recandomi per l’ultima volta sul tavolino di formica ora mi sembra più distante della capitale europea più lontana. adesso i raggi filtrano tra i pini e mi sembra strano di essere qui ed avere quasi la certezza dove dormirò sta notte, una pelle profumata e pochi kilometri da volti conosciuti. perchè un giovedì nel cortile al caldo tra l’ombra delle gaggie selvagge, a caricare tavolini, amplificatori, sacchi di farina, piatti, impianto nei furgoni, ad adattare un’auto vecchia a ripostiglio, avanti indietro per una città bollente, con l’asfalto che si scioglie insieme alla frutta recuperata al mercato. un discount per l’acqua, un bar di quartiere per un tramezzino ed un gelato e trovarsi, en attendant godot sul cemento di un marciapiede di una zona industriale. l’adrenalina nel sangue per una nuova occupazione in presa diretta e trovarsi un’auto scintillante che sfrena di traverso e come un film fa uscire due individui che allungano velocemente un distintivo dicendo “polizia e favorite i documenti”. mi rendo conto che un elenco in stile lista della spesa è sterile ed inutile, ma è per me che voglio abbozzare uno schizzo. è perchè non riesco a distinguere con chiarezza ciò che ho vissuto ed ogni giorno che passa si allontana e si amalgama negli altri barattoli di spezie e colori.
e un cancello aperto su un enorme capannone invaso dal bambù e dal verde che mangia cemento e ferro di una vecchia fabbrica. si inizia per quella che vuole essere un’esperienza di autogestione ed autoproduzione, solo quattro giorni per gettare ponti e barattare conoscenze.
se mi perdessi a scrivere di ciò che mi ha spinto a varcare il cancello, a descrivere le ragioni per cui credo in ciò che ho fatto, probabilmente cadrei in un testo argomentativo che non ho voglia di scrivere. perciò se penso alla polvere ed ai vetri rotti, al cavo spesso ed alla presa bianca e blu, all’enormità degli spazi graffittati, al rimbombo tra la ruggine, agli sbirri in blu e rosso che con un piede di porco in mano forzano il lucchetto, alla voce bonacciona di chi richiede i documenti, alla volante, all’adrenalina e l’incertezza tra il resistere e lo scappare, ed il rimanere, non sapendo dove mettere i piedi, è perchè quelle sono le sensazioni che mi varcavano mentre guardavo al di la della cancellata le divise. nel caldo agitato di un pomeriggio di periferia, con la gravità di norme penali che pesano sulla testa, non sapendo come muoversi e finire incolonnati ad attreversare la città nel traffico. al buio in un cortile a cercare di capire e decidersi come muoversi, come la mente tagliata in due. e trovarsi in una piazza sentendosi chiamare per nome dalla digos e non voltarmi camminando per la mia strada lasciando gli sbirri rosolare nella loro merda. pentoloni di pasta serviti in piazza alle quattro di mattina, quattro e mezza forse, con gli immigrati che escono per lavorare e non capisco che cazzo ci facciamo con tavoli e sedie stanchi su un piazzale. le mazzate della porta coperte da musica che non c’è, e poi a mattino, dormire nel prato di un cortile, con le zanzare
[…ça va continuer…]

e come al solito perdo la voglia di esternare la mia vena realista, le descrizioni mi sembrano ovvie e allo stesso tempo troppo distanti per sembrarmi interessanti.
anche sfogare la mia voglia con un vicino di tenda strano, con il quale finisco inevitabilemente per scambiarmi sguardi che vanno a finire in una fine nottata a ingarbugliarci in tenda. anche questo mi sembra troppo distante, eppure un po’ di vino bianco attorno al fuoco e qualche canna ad amsterdam non devono essere una cortina troppo spessa. ed era l’altro ieri, a scoprire piercing anche dove non li avrei immaginati, a rifiutare amplessi sotto la doccia (cazzo, senza preservativo!), a gingillarmi con piercing su labbra e guancia, abbracciati sotto la pioggia e sentirmi dire “ti prego facciamolo, ti ho resistito tre volte e non potrei un’altra”. e mio fratellino poco prima, ad interrompere, svegliandosi, due corpi che si lanciano sguardi falsamente innocenti e così ben mirati sin dall’inizio da parte di entrambi. perchè so fin troppo bene che di leggere un’etichetta di un sacco a pelo non ne fotteva nulla a nessuno dei due e forse non ci interessava nemmeno troppo come ci chiamavamo, dal momento che una rosa è sempre una rosa, comunque tu la voglia chiamare (ma da che trip esce fuori Shakespeare?). perchè a dispetto di qualsiasi dispaccio proibizionista, a me il thc fa venire voglia, tanta voglia. e l’erba ed il fumo ad amsterdam si comprano nei bar, come racconta estasiato il mio compagno di viaggio-fratellino-diciassettenne ai suoi amici che guardano con invidia la bustina di cimette. e mangiare hashish in una torta mi può portare davvero ad immaginare musica orientale e cammelli sersiani che vagano per un cesso di un campeggio, un albero che si trasforma in un elefante da ageofempire, il terreno pratoso che si inclina all’indietro, verso un cielo che prende le striature del mare. e i colori si mescolano, brillando insieme e distinti, accanto a suoni e rumori che sembrano aleggiare nell’aria. già, una bonghetta di vetro regalatami e mai usata (ma rotta e riacquistata) fa salire sensazioni ben diverse dalle allucinazioni dei villi intestinali, eppure quella voglia, mischiata agli ormoni irrefrenabili di una ventina d’anni, mi portano a non chiedermi perchè un italiano si ostini a parlare inglese, ma a voler solo sentire il suo corpo sul mio. e se ieri non ho dormito, infreddolita dal condizionatore di un treno notturno da Parigi, l’altroieri mi rigiravo stanca in un cortile erboso di Bruxelles, il giorno ancora prima, non dormivo vedendo l’arancione del nylon della tenda schiarirsi sempre più (ad Amsterdam).

martedì 3 luglio 2007

è luglio da tre giorni…

sgranare argilla sotto le gaggie di un edificio occupato, una pasta con troppo poco sugo e l’odore di saldatura, fagiolini e cetrioli nell’orto. le mani si incalliscono, ma mille idee si accalcano. sazio il mio desiderio adolescenziale di “fare qualcosa” e mi sembra di aver trovato la strada giusta.

domenica 1 luglio 2007

sehnsucht?

un’amalgama di colori e sensazioni si accalca sulle mie dita in attesa di essere trasformata in parole e frasi. il sabato mattina il telefono continua a squillare ed e sempre la calda voce francese al di la del filo. ma sono troppo timorosa, questa volta, per trasgredire alle voci sagge di tutti che, come sempre, mi consigliano di restare. insistenza che mi lascia un po’ basita e gioco il peggio gioco dicendo “ti farò sapere” (del resto, dr. hannibal c’est le plus mechant des animals).
un pomeriggio caldo tra la brezza degli alberi di periferia, un’atmosfera che varrebbe la pena rincorrere, tra offerte di birra e un orto di caprette e piantine a sette punte, un’auto che non parte, tangenziale che sembra autostrada d’agosto, supermercati condizionati. e la sera, dopo tanto tempo, in un parco in cui ho lasciato un frammento di cuore, scarico cassette di verdura dall’orto e mi dimentico completamente di lanciare un’occhiata un po’ più in la. e un mosaico in più non è una differenza abbastanza grande per segnare il tempo trascorso. e seduti a chiacchierare il tempo va (anche se un’assemblea strana e preferisco fornelli e fantasia). una strada al buio lungo la ferrovia, facce scure e semafori lampeggianti. arancio dei lampioni e grigio dell’asfalto si fondono ai margini del parabrezza. e con il sole in faccia di una mattinata afosa, due ragazze in un ingrosso di materiali edili sembrano extraterrestri, maschilismo cavalcante che vede tra i mattoni solo chi ha qualcosa che penzola tra le gambe. e “signorina mi raccomando, in senso di marcia!” perchè anche le auto le sanno usare solo loro. e poi un abbozzo di vita, alle undici caffè della sveglia (e, perchè, perchè non ci sono anche io?) in una strada proibita alle auto. poi l’angoscia degli ospedali, forse più ricordata, ma toccabile tra le strade di un isolato pieno di croci rosse e mura gialline, persone che traballano insieme alle loro lastre nelle cartelline gialle, stampelle, fasce e bendature anche tra chi cammina per le vie. espressioni tristi rassegnate di chi attende il bus con gli esiti in mano e, ancor più di chi sbuca su una barella dall’ascensore tra i camici bianchi che puzzano d’antibiotico. ed un bimbo scuro sulla soglia a scambiare monetine con premonizioni di buona fortuna per la guarigione. voglio andarmene togliendomi al più presto dall’inesorabilità biologica. ed i miei vecchietti si limitano ad ingoiare triatec e xanax (e se c’è qualcuno che si fa di morfina non sono nemmeno io a scrivere la ricetta).
un aperitivo che inizia alle nove, posticipato per ravioli e pollo da spolpare (odore del sangue di volatile che mi nausea) pochi sugli scalini colorati e caldi, musica e qualche canna. e veloce verso una festa tzigana che è già finita e scoprire che c’è chi parte e non dovrebbe. ritmo di un bongo in riva al fiume, la terra che sembra sabbia, insalate di pasta, couscous e grano, gente che balla, e qualche sagoma inaspettata. ho sete, ma non c’è altro da bere che il succo scuro di un pintone. so porre le basi per la mia infelicità e mi obbligo ad andarmene, so che mi aspetta un menu da preparare e servire. e su e giù per le scale con vassoi e pentole fino a che le gambe fanno male. incredibilmente per nulla a piegare in due i triangolini di pasta fresca, dosare il curcuma con le noci frantumate. ed è domenica, anche se il cielo si è scurito la viscosità del tempo torna a fare capolino.

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