niente a che vedere forse con quando, partita verso il sud di un mediterraneo freddo, tra il nero della notte su una strada che nemmeno può scorrere come l’inchiostro nei testi di kerouack, mi ritrovo inaspettatamente a essere stronza, dovendo scegliere tra il compiangersi ubriaco e il far finta di discutere con un figo che fa solo cose fighe e non capisce cosa ci faccia, io, nella melma di una situazione da cui non so rialzarmi. dall’alto dei suoi tatuaggi e delle sue rughe, mi dice cose che so fin troppo vere, ma senza darmi soluzioni per cambiare, mentre accanto un viso ispido che vorrebbe introdursi nella discussione, viene fulminato da uno sguardo velenoso a cui non mi oppongo. sotto la luce dei neon, tra il fumo denso di una nicotina impiastricciata, accanto a dei cessi da cui esce soddisfatta e allegra una quarantenne con codini e gonnellino a pois e spuntano come funghi tag freschi dal profumo di vernice, non capisco dove voglia arrivare il tipo con un dente di metallo e una tshirt nera serigrafata perfetto nel suo personaggio. e quando un mio vecchio amico che ho abbandonato tra le montagne di una città sconosciuta, gli chiede di seguirlo per non sentirsi solo nel se poudrer le nez, senza che il mio vecchio amico ne sia entusiasta, monsieur-ti-voglio-assolutamente-parlare mi propone di varcare le transenne che separano il trambusto dalla calma di un refettorio momentaneamente abbandonato in balia di un vecchio cd impallato. e, al di là di un tavolo, la conversazione prende la forma surreale di un colloquio, mi fa talmente freddo lungo la schiena che un buco nero nella mia testa si inghiottisce i minuti che seguono e con il tempo, anche il tipo. e sebbene una parte del mio ego si rinvigorisca effimeramente nel trovarmi con una copertina di cd in mano, l’altra sente, senza saperne poi veramente il perché, onde ghiacciate emanarsi durevolmente dal biondo gigante mentre, a disagio, rispondo in bianco e nero a domande che meriterebbero di essere dipinte con pozzanghere di sfumature diffuse. che gli ho fatto? probabilmente proprio nulla ed è questo il peggio in vecchie amicizie che si sfilacciano, soffocate dall’assenza.
ma tra tutto, anelando ad una bottiglia dal grado alcolico inversamente proporzionale al colore, ho pure il coraggio, negli spifferi di questo cortile di cemento e cicche, di rivolgermi, persa nel non sapere stabilire contatti che nascano dal condividere attimi e situazioni, ad uno sconosciuto di cui ho sentito parlare da un parente lontano, nel buio di lunghi corridoi di una città grigia. scambi vivificanti di parole come semi sparsi al vento, che non so bene se approdino davvero da qualche parte. e, se durante gli attimi che scorrono, vago di stanza in stanza immaginandomi questuante di parole e sorrisi con un crollo di autostima che mi fa considerare sciocchezza ogni sillaba articolata dalla mia lingua non immaginando mai di approdare, qualche ora dopo, su un’isola spersa su un cucuzzolo di una collina urbana, con i lampioni che brillano come stelle arancioni sull’orizzonte, le pozzanghere che riflettono le nuvole che si spostano veloci tra i palazzoni e le case abbandonate, il mare che si nasconde dietro le gru addobbate a festa. e mi ritrovo inspiegabilmente con altri visi amici su un’altalena ed in una capanna per gli attrezzi, a farci coraggio per sopportare il vento che soffia sulle nostre teste e tra le assi di legno di questo rifugio improvvisato. non riesco nemmeno a ridere sotto il cielo marrone, dondolandomi tra le canne che crescono selvatiche lungo l’autostrada. ma, ripensandoci nulla mi impediva di star bene, perfino contenta di avere la pesante giacca che ho rimpianto mentre mi lasciavo guidare ad occhi chiusi da un istinto di memoria tra le strade un po’ più pulite di una città entropicamente impossibile da sbiancare. e il giorno dopo non faccio nemmeno in tempo a risvegliarmi sotto una volta crepata che inghiotto un claradol caffeinato e mi ritrovo ad urlare squarciagola davanti ad un commissariato come se per osmosi si sentissero afflitti da una pioggia di frecce che porta con se’ tutto il male della gerarchia e del potere, cullata dal rimbombo collettivo di migliaia di voci che si trasformano in una sola. e ancora una volta, prima di imbarcarmi su un autobus giallo, mi sento impaurire nel non avere appigli per una meta condivisa, rimmaginandomi mendicante di relazioni da ricamare all’uncinetto. mi chiedo davvero quale sia il fondamento di questa sensazione, dal momento che spesso cado sui cuscini caldi di incontri aleatori. eppure. ho quasi voglia di segnarmi su questo taccuino fittizio ogni momento e tutti i gesti perché possano riconfortarmi, contraddicendo la pesantezza della vacuità che aleggia tra le mie cellule. ma non ho il tempo di lasciarmi a considerazioni autoreferenziali sempre fatte della stessa città, con delle onde che non smettono di stupirmi ad ogni infrangersi, il rivedere luoghi in cui si specchiano altri tempi e altri incontri.
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