giovedì 7 giugno 2007
(di nuovo) sola
accanto a me il sedile vuoto, il fischio della guarnizione del tergicristallo che porta con se’ i suoi anni e una ventola al massimo perchè non si appanni il vetro. le strisce lunghe dei fari sull’asfalto viscido, la strada offuscata dal nero che brilla sotto la pioggia ed il verde che quasi si trasforma in giallo anche sotto il cielo grigio.
al telefono, sulla stessa sedia di sempre, con la cornetta che si porta sulla schiena gli anni, la situazione di cui ridevo qualche mese fa si ribalta, fredda e triste a mio discapito. e mi sento (di nuovo) sola.
me ne sono accorta poco dopo la chiamata, quando ho realizzato di non aver altro metro per misurare la mia vita che me stessa, di non poter neanche più azzardarmi a parlare al plurale (che non sia quello di un “noi” più ampio e caldo che, per fortuna, resiste ancora), di non pensare più con un sorriso a qualsiasi cosa che mi ricordasse un momento felice, a non avere più la certezza che qualcuno si sieda accanto a me. mi manca qualcuno tra le cui braccia gettarmi, macchie bianche sui vestiti da lavare, pensare “questo glielo devo proprio dire” e immaginare un discorso da trasformare in parole. contare affannosamente i giorni delle mestruazioni, rubare preservativi al supermercato e immaginarsi di poter partire su un treno in due verso l’ignoto. e, intanto, sento il freddo umido alla spalla, ossa solamente ventunenni che già reclamano un po’ più di caldo. libro aperto sulla scrivania a guardarmi ed io che scuoto la testa non sapendo nemmeno perchè ho iniziato a sottolinearlo e perchè continuerò a ripeterlo fino a farmi segnare due cifre su un libretto dorato. eppure, è incredibile come diventino famigliari certe voci, come c’è da dare per scontato sentirsi chiamare per nome e rivolgere una battuta. e tra l’afa umida appiccicosa e la pioggia che punge gelida, non riesco nemmeno a capire se fa caldo o freddo.
al telefono, sulla stessa sedia di sempre, con la cornetta che si porta sulla schiena gli anni, la situazione di cui ridevo qualche mese fa si ribalta, fredda e triste a mio discapito. e mi sento (di nuovo) sola.
me ne sono accorta poco dopo la chiamata, quando ho realizzato di non aver altro metro per misurare la mia vita che me stessa, di non poter neanche più azzardarmi a parlare al plurale (che non sia quello di un “noi” più ampio e caldo che, per fortuna, resiste ancora), di non pensare più con un sorriso a qualsiasi cosa che mi ricordasse un momento felice, a non avere più la certezza che qualcuno si sieda accanto a me. mi manca qualcuno tra le cui braccia gettarmi, macchie bianche sui vestiti da lavare, pensare “questo glielo devo proprio dire” e immaginare un discorso da trasformare in parole. contare affannosamente i giorni delle mestruazioni, rubare preservativi al supermercato e immaginarsi di poter partire su un treno in due verso l’ignoto. e, intanto, sento il freddo umido alla spalla, ossa solamente ventunenni che già reclamano un po’ più di caldo. libro aperto sulla scrivania a guardarmi ed io che scuoto la testa non sapendo nemmeno perchè ho iniziato a sottolinearlo e perchè continuerò a ripeterlo fino a farmi segnare due cifre su un libretto dorato. eppure, è incredibile come diventino famigliari certe voci, come c’è da dare per scontato sentirsi chiamare per nome e rivolgere una battuta. e tra l’afa umida appiccicosa e la pioggia che punge gelida, non riesco nemmeno a capire se fa caldo o freddo.
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