come un pomodoro verde e arrugginito, soffro di questo cielo dalla pioggia sempre imminente dai cumuli grigi e dall’aria spessa di un vischio inesistente. come se passassi tutta la vita a stendere lenzuola macchiate in giardino, mi rendo ansiosa ad ogni goccia d’acqua che si infiltra nelle guarnizioni stanche del mio parabrezza invecchiato. ma per quanto mildiou e marciume attacchino senza pietà pelle e metallo, sotto le gocce leggere di una mattina senza notte, tentando di succhiare il fumo denso che sale a contatto con una forchetta piegata, mi coccolo tra quei muri così poco ovattati del mio camioncino. e anche se delle volte mi è apparso come una scatoletta di sardine sotto il grigiume di una latitudine sconosciuta, capisco, proprio mentre inizia a piovere, che basta essere in due per non sciuparsi nella solitudine. e, senza il coraggio di chiedere una carezza (perché alla fin fine “la felicità non si paga, si strappa“), assaporo quell’odore che sa di pupille rimpicciolite e bisogno di niente, nemmeno di solletico alle papille o di uno sfrusciarsi dolce. ma alla fin fine ho paura di quel piacere troppo artificiale che ho visto “portarsi via fiori nelle strade di periferia”, e bevo un infuso da streghetta biologica, come se davvero bastasse un po’ di radice di tarassaco e ortica per alleviare il fegato, un goccio di gambi di ciliege e fiori di sambuco per far scivolare via le tossine e un po’ di erba di san giovanni perché il down non sia troppo basso. mangio foglie di cicoria e soffioni arrotolati in un tacchino marinato in monarda, maggiorana e basilico senza sapermi decidere se sia davvero meglio di una notte da svegli con gli occhi a palla e le narici impastate.
perché a forza di aspettarla succede pure che cada sta cazzo di tempesta.
E non é pioggia, ma grandine gelida e una voce rotta supplica un passaggio per evitare di bagnarsi al freddo.
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Una risposta su “una boa che poga”
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