Arrivo con il diluvio, mi sveglio con la nebbiolina che fa da tenda all’orizzonte.
Capisco meglio cosa voglia dire “tropicale”.
A me, la pioggia ricorda le giornate brumose d’Irlanda e Bretagna, al massimo gli scroscii incessanti d’aprile a Torino, con le tegole lucide et brillanti o qualche acquazzone improvviso di fulmini a ciel sereno. Ma ogni qual volta penso a “pioggia” immagino lo scendere improvviso del termometro. Eccolo l’errore ! Credo proprio che tropicale voglia dire l’umidità incessante senza l’abbassarsi delle temperature. E anche se lo sapevo, non riuscivo proprio a immaginarlo, nonostante gli avvertimenti.
Specularmente ai tristes tropiques, è “ridenti tropici” che mi fa pensare alla camminata odierna.
Dopo la pioggia incessante, mi decido a incamminarmi lungo uno dei sentieri che portano al faro. Primo tentativo tombé à l’eau ed è il caso do dirlo, perché il sentiero diventa rigagnolo nel sottobosco tropicale di immondizia e bambini che giocano. Decido di fare marcia indietro e riprendere il sentiero “ufficiale”. Una sbarra e un guardiano indicano la strada, ridendo strano perché pochi si avventurano a piedi.
Dopo qualche metro e diverse baracche di lamiera da cui risuonano musiche, un abbaiare forte mi sbarra la strada. Prima uno, poi due, e poi un’orda di cani mi guarda senza smettere di abbaiare. Saranno una decina, senza essere troppo minacciosi – sono cani di qui, di medie dimensioni, agili e leggeri, ricordano i cani del Marocco ma addomesticati – sono comunque un ostacolo da sorpassare. Penso all’avvertimento dell’infermiera di non avvicinarmi agli animali. E mi viene pure in mente quando ho varcato la prima volta la soglia di un posto occupato con un mastino da guardia, dell’innocuità di cui volevo assolutamente convincermi (scoprendo, dopo aver superato la mia paura ancestrale dei cani, che era davvero cattivo).
Ma qui, non sono io che mi avvicino, sono loro che vengono nella mia direzione. Anche se si bloccano davanti alla strada che porta alla casa antistante. Non so bene cosa fare, esito guardandomi in giro e sperando che mi dimentichino. Tre furgoncini stracarichi passano claxonando a velocità decisamente elevata rispetto al manto stradale sgualcito. I cani si spostano leggermente, ma continuano a gettare occhiate da guardia verso di me. Quando smettono di abbaiare mi avvicino di qualche metro. I padroni se ne accorgono e gli dicono “Vengan” e a me incitano a passare, rassicurandomi sul fatto che “can che abbaia non morde”.
Passo, guardandomi alle spalle che non mi azzannino gli stinchi –il vaccino per la rabbia non l’ho fatto! Ce la faccio, senza problemi. Faccio ancora qualche passo, rassicurata, chiedendo quale altro animale minaccioso può ancora interrompere il mio tentativo di fare la mia camminata. Non faccio in tempo a finire questo pensiero che sento dei versi intensi, un po’ come dei richiami umani. Mi accorgo che sugli alberi ci sono delle scimmie!! È la prima volta di tutta la mia vita che vedo delle scimmie. Sembrano grossi scoiattoli neri con la coda a spirale. La scimmietta da circo, ma senza gabbia!
Entusiasta e sorpresa continuo il sentiero ammirando la vegetazione rigogliosa. Osservo sulla mia fedele OSM che una fortezza è segnalata con una piccola deviazione. A un certo punto, degli scalini sotto un arco di liane mi indicano –forse ?– il cammino. Decido di proseguire.
Metafora della mia vita. Pur senza linee tracciate, vado avanti.
Dopo questo piccolo scorcio, ce ne saranno tantissimi altri a meravigliarmi di ogni piccolo dettaglio. A farmi sorprendere dalla retorica sandinista, a restare con la bocca aperta di fronte alle bandiere rosso e nere, nonostante la repressione statale odierna (e la guardia alla frontiera, che, da pochi giorni può permettersi legalmente di sparare su chi attraversa il confine illegalmente, che mi dice “Italia, Meloni” con un gran sorriso, e io che penso alle statue di Sandino e alla Rivoluzione e non oso neanche rispondergli (e non era solo il kalashnikov appeso al collo e la divisa nera a farmi paura, la frontiera sarebbe chiusa di li a qualche minuto).
Ma la lava dei vulcani che ancora scorre come brace nelle vene, la foresta da sola tra le grida sinistre delle scimmie urlatrici e un cowboy, il vecchietto che ha seppellito il suo cane e mi chiede se anche in Italia si usano i cavalli per spostarsi, sull’autobus quando il venditore con l’albero di zucchero filato e le mani callose mi chiede se anche l’Italia è rivoluzionaria, il riparo improbabile di un compagno torinese e il gato cosmico di un ragazzino cresciuto troppo in fretta nella periferia del lato caraibico, la febbre della dengue, lo studente di medicina che fa turni da 12 ore, guadagna 200€ e rassicura l’infermiera dicendole che non sono gringa, sono italiana (anche se la sanità è gratuita per tutti, penso anche per gli statunitensi?). E poi lo specchiarsi del cielo stellato nella marea basse di conchiglie, con birre condivise con una persona esiliata in Belgio e con cui scaldare un letto già ardente per l’afa.
L’esitare tra la meraviglia quotidiana per la storia ancora presente in ogni attimo e la paura odierna della gente, la meraviglia per ogni scheggia di questo continente che è venuta a conficcarsi nelle mie pupille. Senza contare che è stata la prima volta che quando mi hanno chiesto “ma tu cosa vuoi ora?”, ho detto “voglio viaggiare”. Cosi’ ho dato le dimissioni dopo aver raggruzzolato a mal a pena ciò che mi bastava per attraversare l’oceano e sono partita zaino in spalla, senza aspettare nessuno (questa volta).
dal mio diario di viaggio in Nicaragua :: novembre/dicembre 2024


















